VALERIO DEHO’
Critico d’arte

“La maggior parte delle immagini contemporanee, video, pittura, arti plastiche, audiovisivi, immagini di sintesi, sono letteralmente delle immagini in cui c’è nulla da vedere, immagini senza tracce, senza ombra, senza conseguenze. Ciò che avvertiamo è che dietro ciascuna di esse qualcosa è scomparso. Queste immagini non nascondono nulla, e nulla rivelano”

Jean Baudrillard, La trasparenza del male, Sugarco, 1991

Tra le migliaia di problemi che la filosofia non ha mai risolto, c’è sempre stato il rapporto tra l’Occidente e l’Oriente. Se in campo artistico le trasmigrazioni simboliche hanno vissuto di casualità e cecità, trasportate spesso dall’occasione e mai da un programma di vero e proprio innesto, in campo filosofico alcune questioni sono destinate a rimanere in disparte o perlomeno considerate come eccessivamente inaccessibili ad una chiarificazione. Eppure tra le forme e il pensiero s’istituisce spesso una terza via che è l’Arte, o che noi possiamo chiamare Arte in quanto altre parole non abbiamo. Questa, appunto, instaura una sorta di identità degli opposti attingendo semplicemente alla storia delle forme e facendo finta di non vederne le radici profonde nella cultura e nella storia degli uomini. Non si tratta d’ignoranza, quanto di una voluta amnesia, cercata e controllata. L’arte non può vivere di memoria altrimenti sarebbe una scienza ausiliaria della storia. Vive piuttosto di tradimenti, d’impossibilità, di desideri. Nel suo regno d’apparenze tutto può trovare una soluzione fugace e transitoria, anche i problemi che la filosofia non seppe mai risolvere fino a che Marx non ne decretò l’inadeguatezza opponendo alla religione l’ideologia e ipostatizzando la trasformazione come atto, in sostituzione di una sterile potenzialità.
Queste considerazioni introducono il lavoro che Davide Grazioli va conducendo, da quasi un decennio, in un nomadismo stabile tra l’Italia e l’India del sud. Il suo viaggiare ha un senso e una sensibilità che hanno qualcosa di estremamente moderno. Non cerca uno straniamento totale nella nuova cultura come poteva essere per le generazioni precedenti la sua ma cerca delle forme di convivenza, d’innesto: delle “incorporazioni” – cioè delle sintesi di corpi diversi – come ha dichiarato in un’intervista di poco tempo fa ad una giornalista indiana.
Ma su queste tematiche bisogna uscire dal porsi semplicemente come un problema di scambi culturali, quasi fosse un programma governativo. In effetti, Grazioli dà per scontato che lui resterà comunque occidentale. È come nelle trasmigrazioni simboliche del periodo romanico, attraverso i gioielli e la sfragistica cinese, durante il quale si importarono i draghi e le meraviglie di un lontano e favoleggiato paese, elaborandoli in chiave europea. Le radici non cambiano, ma i simboli si muovono, anche loro spinti da un nomadismo fecondatore d’immagini, di forme migranti. A questo respiro culturale, Grazioli somma anche lo spirito attuale, che è di forte consapevolezza su quanto sta accadendo. Gli opposti non sono soltanto una polarità Occidente-Oriente già oggetto di una trattatistica più o meno raffinata da Snow in avanti, ma anche tra Presente e Passato.
E qui accade qualcosa di strano perché è l’artista a preoccuparsi di salvare qualcosa che nella stessa India tramonta. È il caso della tradizione dei pittori d’insegne di Chennai (Tamil Nadu), per cui, nel 2003, accortosi che questi stavano soccombendo per l’arrivo della tecnologia digitale, ha realizzato con loro alcuni lavori straordinari che resteranno come le estreme tracce di una professionalità destituita di fondamento commerciale. Così l’arte concilia gli opposti in modo formale, mettendo insieme dei frammenti e costituendo un oggetto nuovo. Perché è chiaro che comunque la tradizione che viene salvata non è la stessa. Grazioli opera nella profondità dei rapporti, ma non può che appartenere al mondo dell’arte, quella attuale, che fa e tradisce in questo momento. L’inno agli animali in via di estinzione, la Tigre o il Rinoceronte o l’Elefante, sia sotto forma di bandiere da preghiera buddiste, sia sotto forma di statue d’incenso, é traccia di un passato che si attualizza e di un presente artistico che funziona sia da meraviglia che da enciclopedia.
Soprattutto la serie chiamata Sanctuary è straordinaria, in quanto il valore simbolico appare sullo stesso piano di questa sostanza, l’incenso (biologico) che, bruciando, invade di un senso di religione e di morte l’ambiente. La poesia di una materia difficile da trattare, il fumo di un mondo che trasferisce la sua identità in un’altra dimensione, il carattere rituale e quindi formale che l’intera operazione prevede, sono caratteristiche che illuminano il lavoro dell’artista come poche altre opere. Probabilmente tra il 2005 e il 2006, anche con l’aiuto della casualità (amata dall’artista) dell’incontro di un italiano che si era messo a coltivare l’incenso biologico in India, è nata una serie di lavori che certamente caratterizza perfettamente la poetica dell’artista. Qualcosa d’analogo si è ripetuto nell’impianto dell’ultima serie di ricami smagliati realizzata in Vietnam tra la fine dello scorso anno e l’inizio dell’attuale. Di notevole bellezza, questi ricami recano varie immagini come asceti, animali e, soprattutto, l’albero sacro; la loro messa in pericolo è simbolizzata dall’abrasione di parte del ricamo stesso. Ancora una volta, piuttosto che la sintesi, prevale un segnale di denuncia, di aggressione ad una tradizione che evidentemente non ha più strumenti per difendersi. L’altro lato del paradosso consiste proprio in questo: né gli indiani né i vietnamiti sembrano soffrire particolarmente di questa eclisse di saperi che scompaiono. Questo è abbastanza evidente, perché, il cambiamento, loro lo percepiscono quasi come necessario, lo sentono come un passo in avanti e non come una perdita. Tra qualche anno anche loro andranno a recuperare il tempo perduto, ma, attualmente, non si smarriscono di fronte alla perdita.
Le sculture d’incenso e i recenti ricami affrontano in modo diverso il rapporto, non solo e non tanto con il passato, ma con gli archetipi. Infatti gli animali, soprattutto quelli rappresentati, dalla balena alla tigre, possiedono una sacralità che li pone in una sfera solo culturale che va ben oltre il problema della possibile estinzione. Alla fine, la sopravvivenza consiste proprio nella loro reinvenzione nel mondo dell’arte. Grazioli è artista consapevole e colto. Il tema dell’albero è autenticamente un esempio basilare per ogni discorso su come Oriente e Occidente possano coesistere e scambiare in profondo, cioè tramite immagini, delle posizioni organiche. Ed è su questo che si possono trovare degli incroci fecondi, piuttosto che sui personaggi, i quali possono caratterizzare una cultura o un’altra, ma che sostanzialmente restano indicatori culturali e null’altro.
L’albero è un crocevia simbolico che unisce naturalmente gli opposti, come Cielo e Terra, che connette con le sue radici gli elementi ctoni e quelli aerei. Ed è anche immagine di archetipi insondabili che connettono la croce di Gesù con la Menorah ebraica. È come se le religioni avessero guardato all’albero come epitome dell’universo fisico e spirituale. La sua simbologia mette in relazione tutti gli esseri viventi, è progresso, sviluppo. Albero della vita, Albero della conoscenza; specchio del segreto desiderio di ridurre ad un’immagine il disordine dell’Enciclopedia del mondo.
Nella rappresentazione ieratica scelta da Grazioli, i fili formano l’intreccio vitale, ma la solitudine dell’albero ne testimonia l’assoluto. Non vi sono relazioni se non simboliche. Le abrasioni non intaccano la forma, né scarnificano la materia nell’impossibilità di cancellarla. È un gesto d’inutile impotenza perché questi alberi sopravviveranno sempre.
Comunque, sembra proprio che nel trovare le permanenze ad un nomadismo che non è solo culturale, ma ha la concretezza e il sudore del viaggio, che Grazioli possa cogliere i suoi migliori risultati. Se sono divertenti i Dieux trouvés del 2004 o le di poco precedenti stampe digitali come Auto rickshaw o Ambassador – in cui prevaleva un senso pop divertito e divertente ma in fondo distante da istanze di spiritualità – certamente il lavoro attuale ha le caratteristiche di una sintesi felice quanto autentica. Ma come sempre è la prospettiva junghiana, nella concezione elaborata dal primo Wittkover, che illumina una volta tanto e, speriamo, per tutte, la nostra insaziabilità. Come a dire che l’arte si nutre di semplicità, che l’albero che abbiamo davanti ha radici complesse ma lo sviluppo dei rami e delle foglie segue regole precise e straordinarie, obbedendo ad un segreto che un matematico medievale scoprì dandogli il suo nome: Fibonacci.
La base delle identità è la diversità. La ripetizione annulla l’identità. Compito dell’arte sta proprio, non solo nello scoprirle, ma nel comunicarle ad un mondo assente. L’accumulo di memoria è un rischio, i western files possono svanire ma con essi svanirebbero anche gli speculari omologhi che sorgono con il sole ad Est. Ricordare è scegliere; per questo l’albero si ricorda, perché cresce in noi stessi mentre lo guardiamo, come scrisse il poeta Rilke. L’arte è allora archivio d’immagini da salvare, poche e bellissime, come un’orma di tigre fusa nel bronzo, come una preghiera ricamata per immagini, come un pensiero che si materializza nell’intenso profumo dell’incenso. Tutto ciò è essenziale all’arte.

Valerio Dehò