PEREGRINATIO esuli e ambasciatori
conversazione tra Alberto Zanchetta e Davide Grazioli

AZ > Concettualmente e linguisticamente sei stato definito un “artista nomade”, attitudine che non a caso si rispecchia nei tuoi frequenti viaggi tra Occidente e Oriente, privilegiando mete quali l’Asia e l’India. Questo nomadismo culturale, tanto caro agli anni Ottanta, intreccia l’arte alla vita, resta però da stabilire se tu sia più cosmopolita o più apolide. Ti pongo il dilemma perché in alcune occasioni hai dichiarato di voler «dimenticare d’essere un europeo», e perché trovo significativo il titolo di un’opera che hai realizzato nel 2003: Spogliarsi dell’identità. Parliamo allora di derive e di approdi, della perdita e della scoperta – più che del recupero? – dell’identità, tra individualità e comunità…

DG > Già questa prima domanda scatena in me un atteggiamento assorbito in India, e cioè una sorta di circolarità nell’approccio. Nello specifico si traduce in un collegamento tra queste due situazioni apparentemente antitetiche: quella di apolide e quella di cosmopolita. Un certo grado di sradicamento rispetto al mio luogo di origine è stato, dapprincipio, una condizione necessaria e propulsiva per il viaggio e per l’assorbimento dell’altro. Difficilmente sarei riuscito a conoscere la realtà indiana senza pregiudizi, senza cioè smettere di essere – almeno in parte – europeo. In generale si potrebbe dire che al viaggiatore torni sempre utile la capacità di spogliarsi, in qualunque modo si manifesti. In questo senso è vero che ho sentito la necessità di spogliarmi della mia provenienza, fermo restando che questa spoliazione è una meta alla quale si tende ma che difficilmente si raggiunge completamente. Si ottiene quindi un risultato di mitigazione delle asperità che renderebbero difficile lo scambio.
Non vorrei essere frainteso riguardo all’affermazione che citi. Io sono, ed in qualche modo resterò sempre, europeo, e non vedo nulla di nocivo nell’esserlo. Ma resta alto l’interesse che suscitano in me le persone che hanno inglobato ed assimilato culture diverse. Appena viaggi ti accorgi che di persone così ce ne sono molte in giro per il mondo, ciò nondimeno avere un’identità troppo impermeabile potrebbe essere un ostacolo. Una delle esperienze più intense che ho vissuto è stata coi pittori d’insegne indiani, perché al culmine del lavoro ho sentito di essere percepito come uno di loro. A quel punto eravamo solamente persone affiatate, con un obiettivo comune. Questo non è un risultato banale, soprattutto se si considera il fatto che in una società così distante ogni caratteristica fisica e perfino mimica rischia di stigmatizzarti come alieno (in India perfino i cenni “sì” o “no” fatti con la testa sono diversi dai nostri).
Trovarsi in situazioni in cui sei l’unico forestiero è un’esperienza incredibilmente stimolante e ti obbliga a mettere in discussione il tuo modo di pensare. Da quella esperienza in poi ho sempre cercato di spingermi in situazioni dove l’interazione fosse una sfida e dove in qualche modo sarei stato costretto a deragliare dai miei paradigmi anche nel modo di lavorare.
Ma spogliarsi dell’identità, sempre riferendomi al lavoro su lamiera da te menzionato, è anche una citazione di concetti buddisti e indù che hanno permeato praticamente tutti i credo. Si parla infatti di rinuncia al “sé condizionato”, alla propria identità mondana, alla ricerca dell’Unborn Self (del Sé innato), di quella goccia di divinità presente in ogni uomo che ci mette in contatto con il Tutto. In questo senso, facendo un passo indietro, nella “identificazione” si recede ad un livello in cui essendo meno se stessi si trova l’altro, ci si scopre simili agli altri. Nel mio caso, io non so se sono più apolide o cosmopolita ma la mia impressione è che una cosa sia funzionale all’altra. Resta comunque vivo in me un atteggiamento di non definitiva identificazione ad una cultura intesa in senso tradizionale.

AZ > Continuiamo il discorso sul principio della migrazione fisica e del pellegrinaggio mentale.  Esistono varie leggende che fanno al caso nostro, in particolare ce n’é una risalente al Medioevo che narra di un ebreo errante condannato dal Cristo a camminare sino alla fine dei secoli / fino al giorno del giudizio. Faticoso, tormentato calvario, verso un’irraggiungibile meta. Questo percorrere senza posa il mondo è invece per te un instancabile, a tratti romantico, modus vivendi prima ancora che modus operandi. Sono molti gli artisti italiani ad essere stati affascinati dall’esotismo, tra i tanti spiccano i casi di Alighiero Boetti, Luigi Ontani e Aldo Mondino, con quest’ultimo hai peraltro condiviso parte del tuo percorso artistico. Qual’è dunque il pungolo, l’esperienza in sé oppure il dialogo tra le culture? Quanto equidistanti credi siano queste realtà?

DG > Il movimento e la ripetitività dello stesso sono portatori di incredibili doti. Se li associo alla concentricità mi vengono in mente situazioni assai diverse: girare intorno ad una pagoda mentre si prega, disegnare con il proprio corpo cerchi di preghiera, i dervisci sufi che girano o il movimento più imploso degli ebrei, sino a giungere al ripetitivo cammino di un pellegrinaggio. Il viaggio, perfino il mio, non sono altro che modi per svuotarsi e sintonizzarsi. Sono modi per trasferire il movimento interiore all’esterno, e di conseguenza per creare un momento di stasi nell’interno di se stessi. Diciamo che è un esercizio di svuotamento atto a poter vedere di nuovo.
Occhi e mente si abituano al contesto in cui si vive creando distorsioni su tutto ciò che è altro, sforzandosi di restare in movimento ci si obbliga invece a mantenere la percezione molto attiva. Quindi mi tengo in movimento. E dentro a questo movimento arrivano esperienze che possono essere fruite in modo più trasversale e meno condizionato. Il contatto tra le culture è una conseguenza di ciò. Proprio recentemente si parlava di “confini porosi” tra le culture. Per risponderti, il mio pungolo è tentare di sfuggire a quella miopia che cala sugli occhi quando si guarda qualcosa sempre dalla stessa angolazione. Forse, come direbbe Terzani, «sono come l’acqua del ruscello, se mi fermo stagno».
Una parte della fascinazione per l’altrove la condivido assolutamente con quella di maestri come Boetti, Ontani, Mondino; c’è però una caratteristica che rende diverso il mio approccio, il modo in cui mi sento. Parlo del fatto che oggi questi mondi non sono più così lontani e la figura dell’orientalista, che era l’unico a viaggiare, è ormai consegnata al passato. Questo mutamento l’ho vissuto come spettatore diretto. Se un tempo parlare dell’Asia (concetto che, già di per sé, è un’astrazione geografica) significava tuffarsi nel sogno, oggigiorno sarebbe impossibile farsi un’idea appropriata della contemporaneità senza menzionarla. Nel mio piccolo decennio di frequentazione dell’Asia ho assistito ad una tale metamorfosi da farmela percepire come il luogo più rappresentativo del mondo contemporaneo – come sostiene Rampini – il laboratorio sociale dove si giocano i destini del mondo, dove si provano le soluzioni a problemi planetari come la convivenza inter-religiosa e la sfida ambientale.

AZ > Qualche anno addietro hai realizzato una scultura che tu stesso hai adottato come un araldico autoritratto. Concepita come un simbolo dell’infinito (dove il Tutto e l’Uno si ritrovano in se stessi), vediamo un fiore di loto continuarsi in un fiore d’oppio: l’uno e l’altro non hanno radici ma condividono lo stesso gambo. Possiamo intenderla come una metafora: la metafora di voler e poter trapiantarsi altrove/dovunque, di ricongiungersi a una realtà che non sia anagrafica, geografica, etnica? Vorresti precisare il concetto che hai di unicità, quindi anche di luogo del ritorno e del potere ri-generante ad esso associato?

DG > La scultura alla quale alludi è esattamente come dici, rappresenta due facce apparentemente opposte: l’una è associata al vizio e al corpo, l’altra alla spiritualità e alla purificazione che si uniscono in un unicum. In quel periodo si parlava anche molto di “cura” ed emergeva l’idea che non ci si può curare solo coi farmaci senza curare anche l’anima. Le due facce sono complementari. L’idea di unicità è ancora una volta qualcosa che ho imparato nel mondo indiano e che trova applicazione nella vita quotidiana. In centinaia di modi diversi, la cultura indiana suggerisce che gli uomini e ogni forma di vita siano come gocce di un unico flusso e che noi siamo fatti dello stesso materiale dell’universo.
Quanto al ritorno, lo vivo su due livelli: il primo è il vero e proprio ritorno (all’indietro) verso casa, che diventa cartina di tornasole del cambiamento. Tornando da una lunga permanenza in luoghi lontani, non appena ci si ri-immerge nell’ambiente natale ci si può scoprire quelli di sempre, oppure ci si può trovare cuciti addosso nuovi pezzi che non se ne andranno più. Una volta i miei ritorni erano spesso riconducibili al primo modo, adesso devo dire che sono più frequentemente del secondo. Essere permeabili e disponibili è una parte centrale, forse la più impegnativa del mio lavoro.
Uno dei regali più grandi arrivati grazie ai primi viaggi fu quello di scoprire che la mia indole sembrava diversa a seconda di dove vivessi. Caratteristiche che da sempre mi sembravano strutturali apparivano diverse, poi ho capito che ciò che crediamo di essere è profondamente mischiato al luogo in cui ci troviamo. E che molta parte del risultato sarebbe diversa se si vivesse in situazioni diverse. Un conto è l’hardware del carattere, altra cosa è il software, quello che ti serve nelle situazioni specifiche. Ho l’impressione che spesso ci si inganni credendo di essere la somma dei due, quando ciò che conta è il primo. Da allora, in qualche modo, metto alla prova quello che credo di conoscere di me spostandomi e confrontando le mie reazioni; spesso ne ricevo grandi sorprese.
Ma ad un altro livello sento di vivere il ritorno paradossalmente, andando in avanti. Ben lontano da casa mia ho capito per la prima volta la valenza della trasmissione delle tradizioni da una generazione all’altra, mi sono così ri-appropriato di parti della mia cultura che non mi erano pervenute. Trascorrendo del tempo a contatto con famiglie in cui ancora l’adolescente chiede consiglio ai nonni per questioni importanti, ho capito la valenza di un tipo di struttura familiare che a casa mia era tramontata almeno una generazione prima di me. Ho amato quello che ho visto e me ne sono riappropriato grazie ad un’altra società… questo per me è un ritorno. Un ritorno che si guadagna allontanandosi è anche il fatto che in India ho scoperto interesse per la figura di Cristo e ri-apprezzato alcuni valori del mio mondo che in Europa non avevo percepito. L’unicità alla quale alludo è un po’ questa. L’induismo conta 330 milioni di divinità ma non ho mai incontrato un Indù che esitasse un istante a dirmi che Dio è uno solo.

AZ > Lontananze e prossimità; scusa se insisto sui parallelismi o sulle discrepanze tra l’est e l’ovest, ma ritengo sia un punto nodale nella tua ricerca. Dapprincipio bisognerebbe analizzare la componente polemica, di denuncia, che pervade le opere degli ultimi anni, con quella capacità di ricondurti dall’attualità all’universalità, e viceversa. C’è poi un elemento non indifferente su cui dibattere, ovvero il fatto che l’arte indiana è intrisa dell’horror vacui e che sovente tende a sconfinare nel kitsch; grande attenzione è quindi dedicata all’ornamento – astratto, segnico – che riduce il mondo a una pura apparenza. Un esempio ci è dato dai motivi che diventano preghiere: essi sono la riprova di voler sfatare la decalcomania della realtà, rovello tipicamente occidentale. Non ultimo, la tradizione privilegia temi spirituali, di cui tu stesso hai fatto tesoro (ovviamente nel tuo caso non si tratta di arte sacra ma di opere che hanno implicazioni religiose), e dall’altra l’erotismo, un’ars erotica che la nostra cultura ha preferito convertire in una scientia sexualis… ma di questo non c’è traccia nelle tue opere.

DG > Proprio grazie a questo essere UNO, di cui l’India è permeata, non c’è vera dicotomia tra attualità ed universalità. Gli indiani passano dall’uno all’altra con l’agilità di chi non percepisce l’esistenza di quel confine. Probabilmente ho mutuato questo tipo di atteggiamento senza farlo in modo troppo consapevole. Il risultato è che mai come oggi il micro e il macro mi sono apparsi tanto simili.
È questa realtà multipla, ipercontemporanea e al tempo stesso ancestrale, ad aver innescato gli ultimi lavori. Credo che tu ti riferisca a quelli sugli animali in via d’estinzione, costruiti sotto forma di sculture di incenso. In quel senso molto del mio lavoro ha attinto dall’indianità, da quell’indianità che fa dell’impermanenza – della transitorietà – il suo fulcro.
Quanto all’estetica indiana, è talmente vasta e mutevole che dentro si può trovarvi di tutto, dall’horror vacui a estreme sintesi visive. Sicuramente una sorta di ricchezza e fluidità dell’immagine è quella più nota, ma ancora una volta l’India sfugge alle definizioni. Come dicevo, la parte che mi colpisce di più è quella più popolare che spesso è destinata ad essere distrutta in qualche rituale. Questa transitorietà mi ha emozionato fin dal primo momento, quando a Calcutta insieme ad Aldo Mondino vidi gli scultori preparare le statue di argilla destinate ad essere bruciate o abbandonate nella corrente del fiume per festeggiare il Diwali. Una delle cose che più mi tocca dell’arte classica sono le sculture in bronzo del Tamil Nadu, ovviamente difficili da incontrare.
Quanto all’arte erotica, in effetti una volta ho lavorato sul tema, molto tempo fa, ma la cosa non si è mai ripetuta, probabilmente perché questo aspetto è uno dei più celebrati in Occidente, quindi meno indagabile.

AZ > Porterò ora alla tua attenzione due libri. Il primo è un romanzo scritto da un mio amico, Occidente nonoccidente di Gianni Actis-Barone

[Piero Manni Editore, Lecce 2002]. Quello che mi preme analizzare di questo libro è il titolo; se rapportato agli emisferi del cervello, sinistro e destro, razionale e irrazionale, notiamo la contrapposizione tra il civile Occidente e il barbaro nonoccidente (“nonoccidente” non è solo una blanda omissione del termine “oriente” ma una contrapposizione, in e per difetto). Così come noi insistiamo a dire che l’Oriente è sempre più vicino, a sua volta l’autore fa dire a uno dei suoi personaggi: «resta comunque la certezza che l’Occidente è vicino». Bisogna cioè debellare il preconcetto del Terzo Mondo, soprattutto ora che l’India e l’Asia sono state i testimoni di come il sottosviluppo sia potuto maturare in (una) superpotenza. Ragionando in termini, e in paradossi, trovo altrettanto indicativa la mostra personale inaugurata a Madras nel 2003, che avevi chiamatoAccidental Occidental.

DG > Le antitesi, civile/barbaro, scientifico/irrazionale, hanno origini antiche, quanto discutibili. Resta pur vero che tuttora molto Occidente reitera il pregiudizio senza nemmeno accorgersene. È proprio a causa di questi duri tentativi di sigillare le civiltà che ad un certo punto ho deciso di guardare la stessa storia standomene un po’ dall’altra parte.
La prima cosa di cui mi sono dovuto accorgere è che c’è stata una civiltà nella valle dell’Indo – Harappa e Mohenjo-Daro – che rappresentava il più ampio esperimento politico anteriore all’avvento dell’Impero Romano. Una cultura urbana dell’età del bronzo, con edifici di quattro piani dotati di acqua calda, tutto questo un paio di migliaia di anni prima di Cristo. Questi “barbari” possedevano già un complesso pantheon di divinità e conoscevano tecniche di controllo del corpo basate sul respiro e sull’uso del suono che potremmo definire proto-yoga. Molto più avanti, mentre da noi la Santa Inquisizione condannava le persone mettendole al rogo, l’India aveva già conosciuto imperatori come Ashoka e Akbar, noti per aver promosso la tolleranza religiosa e perfino l’equidistanza dello Stato da tutti i credo. E potrei continuare, ma quello che mi interessa notare è la portata della re-interpretazione della storia finalizzata alla nostra visione occidente-centrica.

AZ > Veniamo all’altro libro. Dopo il fortunato ll secolo cinese, Federico Rampini è diventato un autentico caso editoriale, confermato anche dal recente L’impero di Cindia [Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2006] in cui spiega – come tu stesso avevi accennato poc’anzi – che «Cindia non indica solo l’aggregato delle due nazioni più popolose del pianeta: è il nuovo centro del mondo, dove si decide il futuro dell’umanità». Rampini fa notare che l’America e l’Europa saranno declassate, lasciando il passo a una civiltà millenaria, quella sino-indiana, autentico serbatoio demografico, economico e culturale. Alcuni sbandierano la loro paura, invitano a reagire, sperano di far fronte comune all’imporsi di questo “nuovo” centro nevralgico. Tralasciamo però l’allarmismo, vero o falso che sia; interroghiamoci invece su un altro problema, che vede contrapposti globalizzazione e folclore. Ritieni ci sarà ancora spazio/tempo per rimanere “rapiti dalla musica degli incantatori di serpenti”, oppure finiremo schiacciati dal brusio di fondo che la modernità porta con sé?

DG > La sensazione che si ha, soprattutto da parte di noi occidentali, è che l’Asia si modifichi irrimediabilmente, tendendo ad una nuova forma, molto lontana da quel fascinoso anti-occidente di un tempo. È quasi inevitabile trarre questa conclusione, io stesso ne vengo assalito spesso. Soprattutto sembra inevitabile chiedersi chi ci canterà quella canzone dello spirito così riequilibrante, se davvero quelle culture lasceranno il posto ad un consumismo/materialismo in tutto simile al nostro.
Questa è la risposta che ti darei nelle vesti di occidentale spaventato, ma ce n’è sempre anche un’altra, è quella dei miei amici indiani, che è più possibilista e forse più fertile. Loro sono abituati a considerare l’India per quel che è: un contenitore fluido ed indianizzatore. Temono meno gli effetti duraturi di questa “moda”, che sentono più come un’infatuazione adolescenziale “passeggera”. L’India non si è inglesizzata nemmeno dopo secoli di colonialismo e non si trasformerà troppo nemmeno stavolta. Sarà comunque lei ad avere la meglio, modificando a propria immagine i nuovi venuti così come è avvenuto con tutti gli invasori. Se si guarda indietro nei secoli non si può dire che questa visione non sia profondamente comprensibile, ma c’è da chiedersi quanto la potenza dei media di oggi possa cambiare la situazione.
La tipica maniera indiana di “incamerare indianizzando elementi stranieri” è rappresentata benissimo da un’immagine, dipinta nei primi del ‘900, sulla quale figura un Krishna che suona il suo flauto: ma non su un albero, né su un fiore di loto, bensì a bordo di una Rolls Royce. Gli indiani dell’epoca avevano sì mutuato l’automobile vista nelle parate degli inglesi, ma l’avevano istantaneamente utilizzata come piedistallo per la propria divinità.

AZ > Un concetto che ti sta molto a cuore è quello dell’ecologia. Ma esaminiamo più da vicino questa parola: l’etimologia greca ci rimanda a due termini, “casa” e “discorso”. Ciò mi permette di tornare alla necessità di raccontare, dare voce a ciò che si pensa e si vede. Ogni viaggio, anche il più breve, come per esempio quello che dall’uscio ci porta al giardino, chiede d’essere descritto, incontrando la consapevolezza del mondo che ci circonda (dall’alba dei tempi ci troviamo sotto un – vitale – tetto di stelle). Il primo passo deve smuovere la mente più che il corpo, dico bene?

DG > E’ proprio così. Quando ti metti in viaggio e sei “disponibile” accogli l’altro dentro di te, riesci a cambiare te stesso. Ma cambi anche perché arricchisci le immagini e le informazioni che hai del mondo. Se mi fossi limitato a osservare il pianeta dalla finestra del mio studio avrei potuto pensare che poco o nulla stesse cambiando. Sono invece incappato in enormi fiumi totalmente disseccati, ho visto foreste scomparire nel giro di mesi, ho visto la secolare pista migratoria degli elefanti venire usurpata dalle ville dei ricchi, i quali ora sparano ai pachidermi che guidati da un istinto antichissimo tentano di ripercorrere quel sentiero, rovinando i loro giardini. E ora che ho visto non sono più lo stesso di prima. Anche questo è il viaggio.

AZ > Ora che abbiamo assodato le radici, è venuto il momento di discorrere dei rizomi. A tal fine mi servirò di un’immagine cruciale, quella dell’albero, che non a caso ricorre nelle tue ultime opere, motivo che hai ripeso dalle antiche cosmologie. In quanto axis, esso evidenzia la trasversalità tra le religioni ma anche tra le culture e le arti, inevitabile quindi il rimando a Paul Klee allorquando ricorreva al paragone con l’albero per identificare nel fusto l’essenza dell’artista. Proprio perché il tronco ha uno sviluppo verticale, ascendete o discendente, possiamo riconoscere al suo interno un iter che si oppone alla piatta orizzontalità. L’artista è quindi un punto mediano da cui si diparte una linea, un percorso che si moltiplica grazie ad un’inarrestabile infiorescenza. Potenzialità che corrisponde a una naturale proliferazione, dal ramo al bulbo al tubero. Frammentazione che dà inizio a un processo di decentralizzazione arborea, investendo l’essere e il divenire, l’identità e l’alterità. Ne consegue che è impossibile, oltre che infecondo, assopirsi all’ombra delle fronde.

DG > Tra ciò che menzioni, il concetto che più mi tocca è quello del divenire… “l’inarrestabile infiorescenza”, bellissimo. Non vorrei glorificare la figura dell’artista quanto piuttosto definire una caratteristica di mutevolezza che io sento come obbligatoria. Tuttavia, oggigiorno c’è un limite a questo continuum plurimillenario: la nostra civilizzazione è entrata in collisione col pianeta. In questo momento non posso non pensare che il nostro legame con l’universo, con il mistero più assoluto, sia proprio il pianeta e che quindi la sovrapposizione ecologia/spiritualità sia tutt’altro che fuori luogo.

AZ > Potremmo discorrere ancora a lungo, questionando sulla possibilità di essere ovunque e in nessun luogo, sull’Uno come Tutto, o insistendo sull’annoso distinguo tra ciò che è originario e ciò che è originale. Quantomeno, sono dell’idea che ci siamo avvicinati il più possibile ai concetti che permeano la tua ricerca. Non mi resta che recidere il cordone e mettere in evidenza l’ombelico attorno al quale ci siamo ostinati con tante parole, e per farlo intendo scomodare due grandi pensatori: guardando alle tue opere si può infatti convenire con Plotino che «noi siamo molte cose», mentre il valore animistico che presiede alla ricerca-viaggio potrei spiegarlo con Platone, che definiva l’anima come «colei che muove se stessa». Da ultimo, per tornare bruscamente a tempi più recenti, citerò Kierkegaard, perché «solo i ladri e le zingare credono non si debba mai ritornare dove si è già stati». Dimentico qualcosa o possiamo concludere qui il tragitto che abbiamo condiviso sulle ali della mente e dello spirito?

DG > Ladro e zingaro sono sicuramente aggettivi che si prestano a descrivere gli artisti. Il tornare è però qualcosa che non rinnego e che ha una forte funzione, è un misuratore del cambiamento, un parametro importante. Mi è piaciuta moltissimo una frase emersa in occasione del premio Terzani sul tema dell’alterità: «se si inizia a scavare per cercare le proprie radici si troveranno solo altre radici, che a qualche livello si intrecciano con