ASHRAFI S. BHAGAT
Critica d’arte
Art India
Davide Grazioli divide il suo tempo tra Asia ed Europa, constatando ora i sottili legami che uniscono, ora le abissali differenze che separano i popoli d’oriente e d’occidente.
L’artista ama mettere in relazione il viaggio con le esperienze trascendenti, in cui l’identità del singolo si riduce fino a fondersi nel tutto.

Il viaggio viene quindi rappresentato come moderna meditazione, come ulteriore tecnica per spogliarsi dell’individualità iniziale ed accedere ad un territorio dove la coscienza sia più libera da condizionamenti e possa assorbire le esperienze di popolazioni apparentemente distanti (percorrendo ciò che Hermann Hesse definiva i ponti magici). Viaggio quindi come stato di grazia, come accrescimento interiore, come ineguagliabile possibilità di bilanciamento, come costante possibilità di distaccarsi dal sè condizionato per raggiungere ciò che i teosofi definiscono unborn self ereditando antichi credo buddisti e indù. Per l’artista è inevitabile quindi che il suo sguardo altaleni tra Oriente e Occidente ora con occhio ingenuo e stupito del fantastico legame tutto indiano alla terra ed alla tradizione, ora velato di brivido per la velocità con la quale l’Asia evolve. Ora incantato turista nell’India magica e meravigliosa,che si emoziona nell’attingere a forme semplici della natura quotidiana intrisa di spiritualità (come nella serie di quadri sull’albero banyan e sulle statue fulcro delle attività dei templi). Ora come deciso difensore di un’indianità alla quale negli anni egli stesso si è indissolubilmente legato (come quando eleva l’Ambassador o il rickshaw a simboli per antonomasia di un’India classica ma impetuosamente contemporanea oppure come quando sceglie come soggetto lo scintillante gradino di ottone che separa dal mondo il saccello interno del tempio indù, quello stesso gradino che gli occidentali non possono e non devono oltrepassare.
Ma la scelta più importante è quella di realizzare tutti i dipinti con un processo che imita concettualmente quella riduzione di soggettività alla quale l’artista allude.

Nel caso della mostra di Madras lo stratagemma è stato quello di coinvolgere nella produzione pittorica i famosi hoarding painters (pittori di insegne pubblicitarie e cinematografiche), trasformandoli in un vero e proprio medium, “cercavo un’ulteriore traduzione che rendesse sempre meno evidente il mio punto di vista individuale” – dice l”artista. Ma la scelta è doppiamente interessante perchè nello stemperare la propria identità, l’artista mette in primo piano i pittori di insegne cogliendo l’ultima possibilità di fotografare una realtà indiana proprio nel momento di suo massimo rischio di estinzione.

Anche la comparsa sul pavimento di un’enorme quantità di foglie di palma intrecciata che rallenta ed ostacola il passo dei visitatori nella galleria della Lalit Kala Akademi, è da intendersi come un ulteriore simbolo della realtà rurale che stride con la velocissima contemporaneità indiana, quella realtà dalla quale nasce la serie di fotografie “spontaneous installations” che riproducono immagini quotidiane ironizzando sulla loro eleggibilità ad installazioni artistiche.

Ma descrivere l’Asia per l’artista equivale a trattare un tema ricorrente e più che mai occidentale come quello del recupero dell’anima dopo quei secoli di eccessivo determinismo che sempre più mostra i propri limiti.

Davide Grazioli cita il daimon di James Hillmann come simbolo del riflusso delle scienze e discipline occidentali verso posizioni più vicine e sempre meno in antitesi con la spiritualità. La scelta dell’artista milanese ricade perciò sull’Asia come inevitabile luogo in cui la spiritualità riesce a trovare posto nel quotidiano.